Page 10 - Milano Periferia
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i cortili vasti come piazze d’armi, raspati da galline e da maiali, fra le
torri dei silos e i fienili ad alte logge; e poi, per tacere d’altro, l’orizzonte
solcato dalle ciminiere nude e dai gazometri azzurri tra i fili delle rondini?
gli scenari scabri e ferrigni, segnati da sovrappassi e da capannoni grigi
dove portavamo, sulla canna della bicicletta, il nostro amore furtivo...

La periferia d’un tempo mi ritorna presente, ma senza rimpianto, incre-
dulo ch’essa non viva ancora, magari a sprazzi e per lacerti: quel misto
di villereccio e di cittadino, di campagna che appare e dispare in qualche
scorcio distensivo, in qualche apertura di verde, di edifici che tendono a
diradarsi lungo strade fatte più silenti e solitarie, tornati nelle architetture
al gusto resistente del borgo, agli stili meno monumentali e più poveri
del tardo liberty provinciale, le rogge che lambivano i muri scrostati delle
case e i molli flabelli di qualche salice piangente, scomparendo in un
cunicolo sotto gli ammezzati e poi riapparendo giulive tra file di "breli-
ni" e caselli di lavanderie, i depositi, i magazzini taciturni e squalenti, le
vie improvvise sepolte tra muriccioli di calmo lucore, le fabbriche basse
con le sequenze dei capannoni sormontati da timpani triangolari, ritmati
da finestre in cotto, guernite sempre di grate o di inferriate come medie-
vali manieri o infisse nel ricordo dei vecchi opifici, le stazioncine annerite
ronfanti di ferraglie e di stantuffi, vicine a passaggi a livello stretti fra
steccati di monotonia cementizia, e ancora: le posterie, formaggio - pa-
ne - salame - vino - mosche -,i cinematografucci dalle salette spopolate e
le pellicole ronzanti, spesso interrotte tra fischi, e alfine: i pioppi venuti a
posarsi presso le ultime case: agili e aggraziati puntavano diritti verso il
cielo agganciando con slancio intorno al proprio tronco la forza dei rami
longilinei, sì che la chioma ne riusciva ammazzolata e flessuosa per quan-
to poco d’aria spirasse. I pioppi erano i corifei, l’albero-guida, la grazia
amica, il parco svettante, sfrecciante, che sfilava tra i primi canali e i
campi marezzati della solitaria periferia.

A ripensarla m’accorgo che essa era tale da alternare l’immagine d’una
perenne, libertaria scapigliatura sconfinante nell’idillio con la natura a
quella della presenza poderosa della città fermentante ed insonne che
subiva il lento e discreto assedio delle nuove fabbriche ed industrie, dei
ceti operai, ancora intrisi di paesana spontaneità e umori terragni.

E ti faceva avvertire il progresso senza esserne travolta e stravolta. In
periferia noi stessi interiorizzavamo di più il nostro essere cittadini, com-
pletavamo ed approfondivamo, strappati al torpore dei minuscoli rifugi il
ciclo della nostra umana crescita. Mescolati alla gente, agli operai e ai
contadini ci sentivamo scaricati dal centro, resi quasi senza peso, più
vicini al cuore buio della stirpe o della pasoliniana "specie", buttati nel
divenire del mondo.

Là ci pareva di trovare il sogno negato della vita comunitaria, e per con-
tro, la reale durezza della sopravvivenza, là il fervore del vicinato fraterno
e per contro, il dramma tragico e antico dell’esistenza quotidiana.
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